Nuove parole

In una sua intervista, tempo fa, Noam Chomsky defini’ la parola come la “caratteristica nucleare di ogni essere umano”, ciò che maggiormente lo distingue e identifica. La parola, quindi,  è uno strumento potente che, se usato nella maniera giusta (o sbagliata) può fare la differenza. E paradossalmente, la poca conoscenza del suo potenziale, può anche, pur essendo usata in modo “benevolmente stereotipato”, distorcere il processo di costruzione consapevole di cui un “mondo nuovo”. Molti si domanderanno: ma per costruire un mondo nuovo ci vogliono i fatti, a che servono tante parole?

La prima risposta importante è che se sono “padrone” delle parole e del linguaggio, metto in atto un processo importantissimo: osservo me stesso e la realtà che mi circonda e con le parole “giuste” riesco a descriverla. E se questa descrizione è condivisa, creo una “eggregore” mettendo in comune dei significati con persone che hanno la stessa modalità di osservazione di quella realtà. Ovviamente lo squilibrio di questo sistema si genera quando uno o più elementi, non condividendo tale “descrizione”, ne rimangono esclusi. E qui interviene un altro elemento importante, conseguenza di quello precedente: con la parola io individuo altri con i quali condivido una medesima “risonanza”.

Cosa accade allora se “cambia la parola”? Se decido che è importate usare un “nuovo linguaggio”? Se cambia la parola, cambia la realtà, il modo di pensare, la percezione del mondo e non solo in modo “grammaticale” e razionale, ma in modo più profondo, al punto da determinare la nostra collocazione nel tempo e nello spazio, le nostre “cornici di riferimento”.  La parola influenza il modo in cui pensiamo. E questo ci dà l’opportunità di chiederci: “Perché penso in questo modo?” “Come potrei pensare diversamente?” E soprattutto: “Quali pensieri desidero creare?”

Ogni nostra parola è un atto di identità. Oltre ad accaderci quello che siamo, ci accade anche “come” lo diciamo. Mentre faccio una dichiarazione su me stesso, dicendo agli altri chi sono, in quel momento sto definendo potentemente la mia identità. Se io dico “ sono timido” mi costruirò e identificherò profondamente come tale, dando alla mia “timidezza” una consistenza e una “importanza” profonda, che probabilmente non mi appartiene, ma che nel definirla io “creo” come tale. La potenza e la funzione degli stereotipi e dei modelli è determinata proprio da questa funzione identitaria della parola, soprattutto in una società mediatica e distopica come quella attuale, dove il valore del tutto e del suo esatto contrario sono assolutamente paritetici.

In un panorama come questo le “buone intenzioni linguistiche” non sono sufficienti. Già l’idea stessa di avere un linguaggio predefinito in un contesto così dinamico come un mondo che si vuole  antropologicamente rinnovare, potrebbe non essere sufficiente se non addirittura fuorviante. Perché la parola “compie azioni” come afferma la sociolinguista Vera Gheno: se io sono un professore, ho il “potere” di promuovere o bocciare uno studente. Se io sono un medico, ho il “potere” di dichiarare la nascita e la morte». Anche se non hai nessun incarico istituzionale, le tue parole hanno potere, e creano azioni concrete, «possono essere proiettili», come diceva Camilleri.

Ma a questo punto dobbiamo inserire un altro dato importante: non tutto può essere “parlato” e descritto. E una parte sostanziale della realtà, che è il mondo simbolico, il quale ha una influenza estremamente importante (se non essenziale) su di essa, nel momento in cui viene “descritto” si trasforma e si limita, perdendo la sua “potenza”. Una frangia della Filosofia del linguaggio (Putnam e Kripke) ci dice che gli oggetti posseggono una natura intrinseca (un'essenza) indipendente dalla mente e dal linguaggio: una volta che si sia instaurata una catena causale di riferimento per una parola, questa sì riferirà al suo oggetto non solo nel mondo attuale, ma anche in ogni mondo possibile.

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La costruzione di un nuovo linguaggio per un mondo nuovo, che riesca a scardinare gli stereotipi e i modelli imposti da una struttura sistemica della realtà rivolta verso la problematizzazione e la morte e si diriga verso la soluzione e la vita cosa presuppone? Se pure la teoria è ancora tutta da delineare e costruire è certo che un linguaggio che “crei realtà” attraverso la costruzione di forme pensiero orientate alla vita, non può prescindere dalla acquisizione e l’uso dei simboli. Certo, l'utilizzo dei simboli e la loro efficacia, si basa senza dubbio sulla diffusione e conoscenza del loro significato. I simboli nascono proprio da qui, dal nostro bisogno primordiale di scambiarci informazioni e gli universi simbolici integrano diverse sfere di significato in una totalità. Il simbolo permette all'uomo di passare dal piano del concreto a quello del concetto, dalla materia allo spirito. In un mondo nuovo non è possibile pensare ad una “parola senza spirito” con cui interpretare l'esperienza e costruirsi delle coordinate di significato attraverso le quali orientarsi nei propri vissuti. E questo i burattinai della realtà attuale lo sanno bene, tanto è vero che la  ricerca sull'intelligenza artificiale si basa su rappresentazioni di problemi "simboliche" (leggibili dall'uomo), di logica e ricerca.

L’universo simbolico non è qualcosa di lontano dal vivere qui e ora, ma, al contrario è ciò che dà coerenza e stabilità alla vita quotidiana (Berger e Luckmann) e questa precisazione, nella costruzione di un nuovo mondo attraverso un nuovo linguaggio, è di fondamentale importanza. Pensare alla realtà solo come un universo simbolico staccato da essa, significa riceverla passivamente e ignorare la possibilità di cambiarla. Pensare che il dato simbolico sia vita quotidiana, invece, significa impiegare ogni emozione, ogni relazione , ogni forma pensiero e ogni azione per rinnovare e ricostruire qualsiasi contesto: dal posto di lavoro al territorio in cui viviamo, passando per la politica che definisce i nostri diritti e le nostre responsabilità.

Non si tratta semplicemente di occuparsi del benessere proprio, ma anche della costruzione di una realtà manifestata che implichi una struttura diversa del pensare, dell’essere e del fare. E questa funzione simbolica che è presente nell’essere umano dai 18 mesi in poi, deve prima di tutto essere potenziata, attraverso la costruzione di un linguaggio nuovo sin dall’infanzia, attraverso anche nuovi modelli di educazione e formazione.

Non più solo il linguaggio della scienza, che scompone ogni oggetto nelle sue parti e analizza ogni aspetto separatamente, ma un altro linguaggio, più costitutivo e naturale per l’uomo: il linguaggio analogico del simbolo fatto di pathos, emozione, mito.

Per dare un senso alla vita. Per creare una sintesi tra le polarità e gli opposti. Per rigenerare il rapporto di alleanza tra la società e la natura.  Per riconoscere che il creato non è un insieme di oggetti ma un insieme di significati e di segreti messaggi.

Solo così, potremo costruire veramente un mondo nuovo che sia una “dimora ospitale” che accolga ogni forma di vita e di talento e possa offrire delle risorse vitali libere e responsabili.